Ho appena recensito per ICOnA l’ultimo lavoro di Danilo Gallo “Hide, Show Yourself“ oggi pubblichiamo il testo integrale dell’intervista che ci ha rilasciato.
Ma più che intervista la chiamerei chiacchierata tra amici accomunati dall’essere musicisti.
Buona lettura!
Marco Campea
MC
Danilo, il tuo disco l’ho ascoltato molto attentamente e tra poco ne parleremo, ma prima voglio chiederti un paio di cosette.
Innanzitutto ho constatato la complessità del tuo setup. Ce ne parli, anche in funzione della definizione del tuo suono così particolare?
DG
Ciao Marco, intanto grazie per l’attenzione e per lo spazio che mi concedi.
Il mio setup del disco: uso due bassi, prevalentemente un vecchio Vox Cougar semiacustico, ed un Rickenbacker 4003, in qualche sporadico frangente una chitarra baritona Danelectro. Su tutti gli strumenti uso corde Dogal di cui sono endorser. Gli strumenti sono collegati a due pedaliere sulle quali uso effetti prevalentemente artigianali di Fattoria Mendoza (di cui sono endorser), che poi splitto attraverso due segnali a due amplificatori uguali. Gli amplificatori sono posizionati l’uno di fianco all’altro, perché il risultato che voglio ottenere non è un effetto stereo, ma un muro di suono unico (entrambi allo stesso volume), in cui però avviene che gli effetti, di volta in volta, scelgo di riversarli su un ampli oppure sull’altro, ad esempio mantenendo il suono “ciccione” del basso pulito da una parte e, chessò, il distorsore o un altro effetto sull’altro ampli, o il dry da una parte e il delay dall’altra. Questo avviene in generale, e in linea di massima, poi può succedere di tutto, perché è sempre tutto live e spesso estemporaneo. Mi piace cambiare il setup e rimettere in discussione tutto, e poi non svelo fino in fondo la ricetta 😉
MC
Quanto reputi fondamentale per un musicista la ricerca del proprio suono specialmente oggi in piena era “informatica musicale” dove tutta la tecnologia che è a disposizione, se usata in modo semplicistico, rischia di appiattire il valore artistico?
DG
Credo sia determinante e fondamentale. La ricerca del proprio suono è un processo lungo e intimo, talmente importante che quando lo si esplica è come mettersi a nudo. È quasi più importante delle note; le note sono di tutti, appartengono ad una tavolozza da cui tutti possono pescare, certo con la propria sensibilità, ma il suono invece no: è unico e irriproducibile da altri. Quando ci si mette totalmente a nudo col proprio suono, allora quel suono non può essere che perfetto. La perfezione è quando è ora e mai più. La tecnologia la considero alla stregua di uno strumento musicale, quindi per me deve mantenere una dose di imprevedibile “contraddittorio” col musicista. Credo che il dialogo tra musicista e strumento non debba mai prevedere il dominio dell’uno sull’altro, ma essere sempre in un bilico reciprocamente rispettoso.
MC
Ti piace essere annoverato nell’ambito jazzistico? E soprattutto, sono ancora tante le cose che ti stupiscono favorevolmente nel jazz?
DG
Francamente non molto, e non perché io non ami questa musica: la adoro! Credo che però il jazz, per come è inteso oggi, abbia travisato il suo significato recondito di musica di matrice popolare in continuo movimento e trasformazione, che partendo dalla tradizione che è quella di ottanta anni prima ma anche del giorno prima, si “sporca” in un continuo processo raccogli-detriti per poi rimescolarsi e divenire qualcosa di “altro”. Non amo quando il jazz viene cristallizzato e messo in una teca come se fosse intoccabile. Preferisco essere considerato un musicista a 360 gradi che del jazz ha preso e continuerà a prendere l’aspetto estemporaneo e non conosciuto prima, o almeno, non consapevolmente conosciuto, l’aspetto non accomodante, per mescolarlo a tutto ciò che mi accade intorno, cioè , traducendo in termini musicali, qualsiasi suono affine alla mia sensibilità.
MC
Sei d’accordo che il jazz a volte sia prigioniero di se stesso, del concetto che si attribuisce, di nicchia? E soprattutto … conviene questo atteggiamento?
Le origini del jazz parlano di tutt’altra faccenda!
DG
In parte ho risposto prima. In realtà non è il jazz ad essere prigioniero di se stesso, ma sono i carcerieri che lo rendono tale. I custodi delle teche. I detentori del paradigma “il jazz si suona cosi'”. La forzata accademia e l’immobilità che si vuole dare, a tutti i costi, a questa musica. Il tutto rischia di relegare il jazz su degli scaffali impolverati e stantii. Le origini del jazz: anche questo è, iperbolicamente, un equivoco; l’origine del jazz avviene ogni volta che ci si stupisce di quello che si suona e non nasce la preoccupazione e la voglia di ripeterlo, ma piuttosto quella di ri-originare qualcos’altro. Il processo infinito.
MC
Cosa pensi in particolare del jazz italiano collocato in un contesto globale?
DG
Credo che il jazz sia l’unico vero esempio di apolidia possibile. In questo senso né riesco né in realtà ho voglia di tentare alcuna collocazione.
MC
Che rapporto hai con le contaminazioni tra generi musicali? La storia ci racconta che sono state importantissime e che hanno determinato delle vere e proprie rivoluzioni culturali. Ma molti, ancora oggi, portano avanti un discorso purista che io, insomma, fatico a comprendere. Anzi, a volte, ne faccio addirittura un discorso di integrazione sociale. Cosa ne pensi?
DG
Il termine “contaminazione” non lo amo molto, poi in tempi di virus sembra una beffa. Anche il termine “genere” non mi aggrada molto, se non quando serve ad orientarsi tipo tra gli scaffali di un negozio di dischi. Parlerei piuttosto di incontri e scontri tra modalità di concepire e fare la musica, e quindi parlerei di cocktail di ingredienti disparati, di diversità, che generano “novità”. A volte gli ingredienti restano nitidi e distinguibili nei sapori, altre volte si mescolano così perfettamente che se ne produce un sapore nuovo. La rivoluzione culturale avviene proprio in tal senso, quando l’esaltazione e il rispetto delle biodiversità porta a generare un nuovo punto di vista, con la consapevolezza del punto da cui si è partiti e che non bisogna mai tralasciare.
Il purismo è una bufala. A meno che non si voglia fare musica in un laboratorio asettico o iperbarico.
MC
Ci racconti un aneddoto che ricordi i tuoi primi passi da musicista? Una cosa breve ma indicativa del tuo approccio alla musica. Una fotografia insomma.
DG
Non ho un buon rapporto con gli aneddoti, come con le barzellette: se non li dimentico, nella migliore delle ipotesi non so raccontarli. Forse per il limite che tende all’infinito la vita stessa è un aneddoto (o una barzelletta?). Ad ogni modo ricordo un tour, poco meno di 20 anni fa, con Steve Grossman, in cui sul palco puntualmente non esisteva la scaletta e ad ogni brano era uan ciu’ tri for jazz! Che conoscessi o meno il brano che stava per iniziare non importava, dovevo suonarlo e basta. La processione si vedeva quando si ritirava. È stata una grande palestra e mi ha insegnato molto in termini di attenzione e creatività, e per districarsi sul filo del rasoio col burrone a destra e a sinistra.
MC
Da insegnante cosa raccomandi di più ai tuoi allievi e specialmente ai più giovani? Personalmente ritengo che oggi, a differenza nostra, non siano proprio privilegiati in tutto. Noi tritavamo le musicassette (ricordi l’avvolgimento veloce con la penna bic?), mentre loro oggi dispongono degli Aebersold ed è molto comodo. Ma forse si perdono qualcosa, non so … tu che ne pensi? Hanno la stessa nostra fame?
DG
Ai miei allievi, che poi sono miei compagni di uno dei mille percorsi di vita, suggerisco sempre di cercare di essere liberi, di imparare sì, ma di non considerare mai nulla come fosse un dogma. Di trasformare le nozioni in punti interrogativi e di non fermarsi mai alle prime comode risposte. Non credo siano meno affamati di noi. Si è giovani sempre, a tutte le epoche. Credo che loro racconteranno le loro nostalgie come noi raccontiamo le musicassette. Ogni epoca avrà la nostalgia del passato ma allo stesso tempo la voglia impetuosa di scavalcare la staccionata dell’orizzonte del futuro.
Aebersold? Arghh… Mai usati, non li consiglio, lascio loro la scelta. Ma in cuor mio preferirei non usassero questo mezzo, perché è fasullo e non esiste in natura ☺ ! E poi non esiste solo il jazz di cui, tra l’altro, Aebersold è un camuffamento carnevalesco, una fiction.
MC
Ma ora parliamo del presente. Come stai vivendo questo dannato periodo Coronavirus? Credo che oggi più che mai venga a galla la scarsa considerazione di una professione considerata quasi aleatoria e persino giocosa. Ricordi la fatidica domanda … si vabbè ma il tuo lavoro vero quale è?
DG
Per quanto concerne il lavoro del musicista, in questo tragico momento, è stato il primo a fermarsi e sarà l’ultimo a ripartire, in quanto fa parte di una filiera di attività occupando una posizione in coda. La pressoché totale mancanza di tutela della categoria ha responsabilità che risalgono non all’altro ieri, ma a decenni di malgoverno, malcultura e malafede, adesso ne raccogliamo le macerie. In generale non me la sento di commentare in questa sede l’enormità della tragedia, e il processo che l’ha generata (ma si fa presto ad immaginarlo, allorché si parla di Italia). Spero solo che in futuro ci possa essere più attenzione al pensiero concreto e non alle chiacchiere da partiture politiche, leccaculismo piramidale, che neanche durante il vassallaggio medievale.
Mi auguro, ad ogni modo, che questa esperienza insegni a tutti di poter trovare, nel futuro, angoli di “anormalità”, di quella incosciente curiosità costruttiva e creativa che voglia e possa fare da lubrificante all’eccezionalità e alla straordinarietà. Proviamo a pensare, quindi, che quella che ricordiamo come normalità non era poi così tanto virtuosa.
MC
Veniamo al tuo ultimo lavoro: Hide, show yourself!
A chi è rivolta questa esortazione? Per caso è autoriflessiva?
DG
Il titolo del disco è frutto della grande sensibilità creativa della mia compagna, Kathya West, cantante e complice di mille idee musicali e diversi progetti che abbiamo insieme, per me bellissimi e importantissimi, nonché artista poliedrica. Nella frase si evince quasi un ossimoro, e l’intenzione è quella di esorcizzarlo ma anche di assecondarlo. Una sorta di deliberante e poetica contraddizione. In realtà il suono di questa espressione è già molto forte in sé e nella sua surrealtà, che può lasciare intendere, come ogni opera d’arte, mille interpretazioni. Quindi lascerei al lettore farsi la sua storia. Io mi sento solo di dire che siamo sempre sul bilico tra il nasconderci e il mostrarci, come se per proteggerci abbiamo bisogno di scoprirci. Se sia riflessivo lo è nella misura in cui ogni gesto artistico, in questo caso una frase poetica, suscita riflessioni che poi possono essere dapprima fatte verso il mondo esterno per poi essere traslate al proprio io: ciò per dire che ogni riflessione, a mio parere, ha sempre una matrice autoriflettente.
MC
Nel disco c’è sicuramente un filo conduttore. Le composizioni fanno parte di un contesto specifico? Sono tutte composizioni recenti e quindi “omogenee” tra loro?
DG
L’80 % sono composizioni omogenee pensate per il concept, altre meno recenti le ho riadattate e sono diventate “nuove”. C’è un filo conduttore, e se fai caso ai titoli dei brani (per la maggior parte dei quali ringrazio sempre la mia compagna che ne ha coniati tanti mentre ascoltava con attenzione il processo compositivo) parlano di muri, mattoni, demolizioni, polvere, ma anche di acqua e di alberi come a prenderne il posto. Ti racconto allora il “manifesto” del concept.
Gli esseri umani ancora costruiscono muri. Quelli fatti di mattoni, di cemento, di staccionate.
Quelli dei confini geografici. I muri culturali, i muri emozionali, religiosi, sensoriali, le barriere, i sentimenti non condivisi. Tutto ciò contribuisce ad alzare mattoni su mattoni, oltre i quali non si riesce e non si vuole vedere niente e nessuno, mettendo lucchetti alla propria esistenza.
In questa era di politiche e di costumi che tendono ad alzarli tutti, in una sorta di effetto domino reverse, a produrre un andamento lineare e piatto, così da eliminare diversità e sfumature, danze e traiettorie multiformi, l’auspicio è che si creino sempre crepe per poterli demolire.
“Ognuno prende i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo” diceva Schopenauer.
Senza muri il campo visivo di sicuro si espande, e i confini tenderanno a mischiarsi, facendo emergere il bello da tutte le diversità, aggiungerei io.
MC
Come hai scelto i tuoi compagni di viaggio? Mi sembrano assortiti in modo perfetto, complementarità e personalità molto distinte. Anche la line-up con due sassofonisti clarinettisti è abbastanza ardita. A proposito riporta a loro i miei complimenti, bravissimi!
DG
Riporterò sicuramente i tuoi complimenti! Questa formazione è nata nel 2015 e registrammo il primo disco “Thinking Beats Where Mind Dies” sempre pubblicato per Parco della Musica Records nel 2016, che poi mi ha chiesto di replicare, e quindi è stato partorito il lavoro di cui stiamo parlando. Nella formazione originaria, sempre in quartetto, era presente Francesco Bearzatti, sempre al sax tenore e clarinetto, ma che, in occasione di questo ultimo lavoro, non ha potuto partecipare perché doveva risolvere problemi di salute (e li ha risolti!), ragion per cui ho chiamato l’amico e sensibile onnivoro musicista Massimiliano Milesi. Gli altri due restano Francesco Bigoni al tenore e clarinetto (compagno di esperienze musicali e di amicizia da oltre 15 anni, ne potrei raccontare mille indelebili) e Jim Black alla batteria, un musicista che reputo unico al mondo nel suo approccio allo strumento, che mi folgoro’ da subito quando iniziai ad ascoltare “jazz altro” (concedimi l’espressione), per il suo modo di concepire il tempo non solo linearmente ma circolarmente, come un’onda che ti avvolge, ti fa sobbalzare ma ti protegge. Tutti musicisti fantastici che hanno in comune il fatto di essere liberi, che esercitano la loro libertà non dove finisce quella degli altri, ma, al contrario, dove inizia quella degli altri. Una sorta di equilibrio anarchico perfetto. Li ho scelti per questo, perché come me sono musicisti onnivori, ma più di tutto perché sono amici. La line up è voluta perché amo confondere le carte in tavola con due strumenti uguali (due sax tenore per esempio), ad accavallarsi spesso per creare linee melodiche e armoniche come se fossero un unico strumento, clusters, contrappunti nello stesso range, power chords come una chitarra rock, per poi confondersi e rincorrersi; spesso infatti gli assoli sono collettivi: mi piace sempre avere una visione collettiva della musica, in un flusso continuo, non amo tantissimo, dal punto di vista compositivo ed esecutivo, il passaggio della staffetta solistica in strutture cicliche e ripetitive, come uno standard suggerirebbe. Questo riguarda la mia musica, ma non vuol dire che io non mi diverta a farlo quando dovessi venire coinvolto in musica altrui.
MC
Danilo, ti ringrazio anche a nome di tutto lo staff di ICOnA. E spero che questo nostro incontro sia solo l’inizio di un buon periodo musicale per tutti. Grazie di cuore!
DG
Sono io che ringrazio te, lo staff di ICOnA, e ti/vi faccio i miei complimenti per le iniziative che state intraprendendo con passione.