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“Kind of blue” di Miles Davis

Recensione di uno dei dischi più
venduti della storia del Jazz, datato 1959

Siamo nell’agosto di quel 1959 che ha segnato il jazz, quello di tutti, di coloro che già c’erano e degli altri che sarebbero arrivati.

Sembra proprio che tutte le congiunture favoriscano l’incombente cambiamento.

Qualche anno prima, infatti, e precisamente nel 1955, muore Charlie Parker e il suo bebop, forse già un po’ logoro, ne risente.

A ciò si aggiunga il libro di George Russell di qualche anno prima (1953), The Lydian Chromatic concept of tonal organization, nel quale l’autore rivoluziona la teoria relativa all’improvvisazione ponendo come base l’utilizzo delle scale modali in luogo di quelle tonali, ed il quadro sembra completato. È utile però specificare che le scale modali non “nascono” in quel momento. Assolutamente no! Risalgono infatti alla musica dell’antica Grecia, per poi consolidare con il canto gregoriano (scale “autentiche” e “plagali”).

E succede che molti musicisti volgano lo sguardo, forse stufi della clausura tonale, di quei rigidi fondamenti che impongono un determinato comportamento musicale. Troppi accordi, troppe scale per quegli accordi, e il suonare in quel modo forse non piace più.

Ma le novità sono in realtà due. Dallo sfiorire del bebop nascono infatti due nuovi movimenti musicali. Da una parte il “free jazz” di Ornette Coleman e Cecil Taylor e dall’altra il “modal jazz” che vede proprio in Miles Davis e George Russell, autore di quel celebre trattato, i massimi esponenti. Anche il clarinettista Tony Scott è tra i promotori del modal jazz, forse persino prima (aeolian drinking song – 1956) … e con lui suona un giovane ventisettenne pianista di nome Bill Evans!

Questi due nuovi modi di suonare sono altresì molto diversi, antagonisti, e si basano su due principi altrettanto opposti.

Il free jazz azzera e ignora quasi tutte le regole del bebop, mentre il modal jazz le riscrive totalmente. Potremmo quasi affermare che il free jazz sia anche sfiorato da un’esigenza sociale, siamo ancora in piena era segregazionista, e quindi quella sorta di anarchia potrebbe essere rafforzata anche da tale contesto. Quella rabbia, quella sete di … libertà e giustizia. E infatti appare come musica quasi “armata”, ricca di tensione, esibendo spesso fragori dinamici catartici.

Il jazz modale è anch’esso più libero e disinvolto e per molti appare più stimolante. Puoi suonare tante melodie, sposti addirittura le toniche o addirittura non le suoni, vari le ambientazioni e, soprattutto, puoi godere di una tranquillità musicale data dall’assenza di costrizioni armoniche ad ogni battuta, perché gli accordi, come abbiamo già detto, … sono pochi. E poi è elegante, accattivante, quasi snob. Ma in questo caso sembra proprio che ogni cosa sia motivata da un discorso prettamente artistico, dettato semplicemente da quella sorta di “incoscienza” che tutti gli artisti dovrebbero salvaguardare internamente. Tutto viene rivisto sintatticamente, cambia l’organizzazione del linguaggio musicale.

Insomma … è cambiato il suono del jazz!

Si è di fronte quindi alla necessità di “riconfigurazione” dei grandi jazzisti, con evidente vantaggio per quelli emergenti.

E uno tra i grandi jazzisti in fase di riconfigurazione è proprio Miles Davis, che anche se solo più che trentenne è già famosissimo. E sposa il movimento modale. Inizia quindi a sviluppare per suo conto alcuni concetti basati su una diversa strutturazione armonica, che permetta di spaziare nell’improvvisazione intesa come fonte inesauribile di melodie. E in questa direzione possiamo considerare “milestone” (1958) il brano di esordio.

Ma ora è tempo di raccontarvi Kind of blue.

Miles Davis ha 33 anni ed è, come già detto, uno dei jazzisti più rappresentativi in circolazione. Ha un contratto con la Columbia Records, l’etichetta più ricca del periodo, in grado di avviare e sostenere produzioni consistenti.

Ed ecco giustificata la scelta di quei grandissimi musicisti che tanto hanno caratterizzato “Kind of Blue”.

Eccoli:

John Coltrane – sax tenore

Julian Cannonball Adderley – sax contralto

Bill Evans – pianoforte

Wynton Kelly – pianoforte (Freddie freeloader)

Paul Chambers – contrabbasso

Jimmy Cobb – batteria

A produrre il disco c’è Teo Macero (sassofonista e produttore) che per 20 anni è alla Columbia Records, e che successivamente produrrà un altro storico lavoro di Miles Davis: “Bitches Brew”.

Il disco prende anima da due sessioni di registrazione, sì avete capito bene, due sole giornate (2 marzo e 22 aprile del 1959)! Ma la cosa più sensazionale è che i musicisti provano pochissimo e a supporto hanno solo qualche scarno appunto che Davis fornisce loro poco prima. Ciò significa che prima di entrare in studio non sanno minimamente cosa stiano per suonare!

I brani sono cinque e cercherò di raccontarveli, solo lambendo il discorso tecnico relativo all’analisi, soffermandomi maggiormente sulle sensazioni di un ascolto sempre nuovo. È un disco per tutti, non solamente per amanti del jazz, ma anche per chi non sospetta minimamente cosa possa rappresentare una simile opera. E credo che per incuriosire il lettore si debba stimolare l’attenzione alle sensazioni, quelle belle, e non ai tecnicismi che spesso, essendo solo per addetti ai lavori, e nemmeno per tutti, annoiano fortemente.

1. So What

Struttura semplicissima, quasi subito si capisce come funziona. Gli accordi sono semplicemente due e girano sul modo dorico. Ma prima c’è una suggestiva introduzione di pianoforte e contrabbasso (sembra fare il verso alla mano sinistra di un qualunque pianista). Poi parte la melodia del contrabbasso, che sembra porre una domanda, a cui risponde prima solamente il pianoforte e poi anche i fiati. E c’è l’alzata di un semitono e poi si torna a quel Dm. Partono gli assolo. Inizia Davis, calmo, dolce, posato ed educato. Le pause fanno respirare il brano e anche l’ascoltatore vede crescere la curiosità dentro di sé. Forse non ha mai ascoltato jazz e si stupisce che … possa addirittura piacergli. È magia pura! Arriva il tenore di Coltrane e movimenta un po’, è nervoso e il suo fraseggio è frammentario. Poi Cannonball che alterna discendenze per poi risalire, insomma sembra portarci a spasso ma … accompagnandoci senza lasciarci mai da soli. Ecco ora l’assolo di pianoforte che supportato dai fiati armonizzati del tema, ma con l’accento posizionato diversamente, sembra rispondere. Poi esibisce un gioco di armonizzazioni molto ricercate, ma tutto appare in tono dimesso. Non vuole strafare, non serve. Ed ecco il finale che ripropone il tema. Tutto così naturale, ovvio ed essenziale!

2. Freddie Freeloader

Inizia che sembra la ripresa di “So what”. È un blues atipico ma è un blues! Tema semplice ed orecchiabile, amichevole. Poi l’assolo di pianoforte di Kelly, perfetto, a volte quasi dispettoso ed irriverente, ogni tanto sembra impuntarsi ed alza la voce (escursioni dinamiche). E arriva Miles, è tutto misurato e le sue note si lasciano assaporare. Cannonball con un’ambienza più metallica, sembra proprio a suo agio, in fondo viene da lì, dal blues. Coltrane con un fraseggio dove vengono “nascoste” dinamicamente alcune note con sotto il piano di Kelly che accompagnando simula i fiati di una big band. Ed è la volta di Chambers gommoso e discreto, non esagera è composto, un signore! Il tema a chiudere. Qui non c’è quasi niente di modale.

3. Blue in Green

Qui si scalano vette altissime. Il brano è sublime! Anche in questo caso si rimane nell’ambientazione tonale. L’intro spettacolare di piano, una linea melodica riflessiva, varia tantissimo e non riesci a fissarla facilmente. Vabbè, non importa! La tromba con la sordina e zero vibrati.  Le dinamiche sono gestite in modo esemplare, il rumore delle spazzole in sottofondo è il tappeto più prezioso dove ci si stende tranquilli a guardare il cielo. Dell’assolo di Evans, anzi delle porzioni di assolo non ne voglio parlare, rovinerei tutto. Ascoltatelo e basta. Mentre quello di Coltrane è così riflessivo e malinconico. Altra piccola “porzione” di Evans e di nuovo Miles con una melodia/assolo. Finale … Chambers con l’archetto insieme a Evans, … divagano.

04. All Blues

Blues un po’ particolare in 6/8. La melodia è molto dolce e cattura immediatamente l’ascoltatore, mi piace pensare che ciò avvenga soprattutto nei confronti di quello “normale” che non ascolta necessariamente jazz. Quel basso in sottofondo, così bonario e sereno, quasi una sorta di cantilena fa camminare tutto il brano. Il suonare trillato di Evans crea una particolare ambientazione, è un pad “ritmico” che sostiene. Poi quei fiati armonizzati, così dolci a supportare la melodia di Miles. Ma ecco gli assolo supportati da una batteria un po’ più presente, meno dimessa che sembra divertirsi di più. Apre in un certo senso il suono globale del brano con quello swing ternario così caratterizzato. L’assolo di Cannonball è molto ricco, limpido. È fatto di tanti piccoli riff orecchiabili e amichevoli, poi le divagazioni con un fraseggio praticamente perfetto che preparano il cambio accordo. Ma l’assolo che vorrei porre all’attenzione è quello di Evans. Gioca con piccole frasi supportate da quell’andamento ritmico che ha tenuto per tutto il brano. Usa il pedale per allargare, bagnare e arricchire il suono. Poi richiude e asciuga tutto. È un continuo armonizzare, variando le figurazioni ritmiche accorciando e “stoppando”. Avrebbe potuto strafare e invece si “accontenta” di condire con pochi ingredienti ma ricchissimi. Tornano i temi e si chiude.

5. Flamenco sketches

Ecco il brano che amo di più di questo grande capolavoro che è Kind of blue.

Modale, modale, modale … I musicisti suonano aspettandosi l’un l’altro e, nel caso, variando i propri contesti improvvisativi. È questa l’essenza del modale, una continua creazione di ambientazioni sempre diverse, sempre contestuali e riflesse da chi suona lì vicino. Puoi decidere a priori quali “modi” userai, ma non è detto che all’improvviso una nota del tuo dirimpettaio non ti faccia cambiare strada. Una fucina di sensazioni, sempre nuove e inaspettate. E Flamenco Sketches è la sintesi di tutto questo. Gli assolo dei musicisti scorrono via senza affaticare mai e vorresti che non finissero mai. Ascoltate questo brano in un momento di relax, magari a fine giornata e con poca luce. Sarà uno scorrere di brividi.

Ora quelli bravi consigliano, a fine recensione, di scrivere sempre le conclusioni su quanto esposto.

Beh io riesco solo a consigliarvi di ascoltare questo immenso ed emozionante capolavoro.

E non mi rivolgo agli appassionati di jazz ma soprattutto a coloro che si affacciano per la prima volta in questo mondo, magari incuriositi dal sentito dire o addirittura da queste poche righe.

Fidatevi, non vi farà male … anzi!

marco campea – siAMO musica – ICOnA